Alesina
e Giavazzi in un editoriale sul Corriere della Sera del 12 luglio 2013 si
chiedevano perché si continua ad aumentare le tasse, invece di tagliare la
spesa pubblica. Si richiede maggiore flessibilità all’Europa piuttosto che fare
un piano credibile di radicale riduzione delle uscite, quindi ci affidiamo
sempre all'aumento della pressione fiscale.
Aumentare
le spese, magari chiamandole «investimenti pubblici produttivi», ma di tutto
l'Italia ha bisogno tranne che di più spesa pubblica. I consumi delle famiglie
sono scesi del 6%, il potere di acquisto delle famiglie è diminuito, ma la
spesa delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi è in costante
crescita. Quindi concludevano che: “L'Italia ha bisogno di meno tasse sul lavoro
per far crescere l'occupazione, e meno tasse sui consumi per far ripartire la
domanda.
Aumentare la spesa pubblica significa che prima o poi le tasse
dovranno crescere ancora di più”. Da anni continuiamo a commettere il medesimo
errore: i vari governi hanno solo incrementato ancor più la pressione fiscale, peggiorando la
situazione. È un circolo vizioso che sta distruggendo l'economia.
Recentemente
uno studio realizzato dalla Confcommercio e dal Cer, che ha preso in esame il
periodo dal 1992 ad oggi ha evidenziato che le tasse locali hanno subito un
incremento passando da 18 a 108 miliardi di euro; quindi in due decenni le
imposte legate alle amministrazioni locali sono aumentate "di oltre il
500%".
Questo
aumento considerevole del gettito locale è stato accompagnato da una crescita
della spesa delle amministrazioni: mentre la spesa delle Amministrazioni
Statali sono del 53%, quella di regioni, province e comuni del 126% e quella
degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica
complessiva è raddoppiata. Inoltre, nell’ultimo decennio, risulta quasi
triplicata l’incidenza delle addizionali regionali e comunali sull’Irpef;
rilevante, infine, la differenziazione delle singole regioni in base
all’incidenza dalla tassazione locale
Questi
dati rappresentano il fallimento del federalismo. Il federalismo si ispira ad
un principio di responsabilizzazione delle amministrazioni locali ed è una
scelta istituzionale efficiente se riesce a favorire una migliore gestione
delle politiche pubbliche, determinando una riduzione dei loro costi. Nelle
intenzioni del legislatore, il federalismo avrebbe dovuto portare a un aumento
dell’autonomia impositiva degli enti locali, facendo esplicitamente salvo il
principio dell’invarianza della pressione fiscale complessiva a carico del contribuente.
Nella sua fase attuativa, il federalismo si è però vistosamente allontanato da
questo principio ispiratore. Non si trovano infatti, almeno fino a questo
momento, tracce di compensazione fra i livelli locali e centrali, prevalendo
invece una tendenza alla duplicazione di spese ed entrate.
Oltre
che per il loro impatto quantitativo, le imposte locali si segnalano per il
forte aumento del grado di frammentazione apportato al sistema fiscale. Il
territorio italiano è ormai fortemente segmentato a causa del diverso peso
assunto dai tributi prelevati dagli enti decentrati. Si è dunque in presenza di
differenze che creano un’iniqua distribuzione della tassazione sulle famiglie e
che rendono molto complesse le scelte localizzative delle imprese, un ulteriore
fattore di complicazione che il sistema fiscale italiano pone sulle spalle del
mondo della produzione e del consumo.
La
si chiami Tari, Tuc, Tarsu o Tares, ecc. … la verità è che alla fine ai
cittadini il nome interessa poco. Ciò che conta è come si calcola, quanto e
quando si deve pagare.
Certo
la politica che si rifugia nel puro cambiamento di nome (nominalismo di facciata)
assume i connotati della presa in giro, rappresentando anche una confusione e
una incapacità a fare scelte chiare e trasparenti (cioè “metterci la faccia”).
Ma dietro a questo modo di fare politica si nasconde l’inganno: da una parte,
si continua ad aumentare le tasse; dall’altra, si vuole far intendere di
eliminarle o modificarle per aumentare o non perdere consenso. I cittadini
devono capire che occorre cambiare questi POLITICI che non parlano chiaro; in
democrazia esiste solo un modo … come???
… non votandoli, cioè scegliendo un simbolo e/o una preferenza diversa.
Il
voto è come un telecomando della TV se non piace un programma o un volto si
cambia canale. Ma anche il cittadino deve uscire dal pensare di “guadagnare”
per via clientelare. Chi ha ricevuto “favori” non sarà mai libero di cambiare
voto. Il presupposto del cambiamento vero e duraturo è dunque imparare “a fare
la fila” e aspettare il proprio turno … il troppo “furbo” continuerà a votare
gli incapaci che si limitano a ingannare i cittadini.
(fine prima parte ... continua con l'analisi di Castelnuovo Magra - Euro Mazzi).
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