castelnuovo magra

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lunedì 29 gennaio 2018

APATIA, PAURA E BANALITÀ DEL MALE

Il 27 gennaio (Giorno della Memoria) è occasione di cerimonie in ricordo della deportazione di milioni di persone (ebrei e non solo) e del loro sterminio. Il numero esatto di persone sterminate dal regime nazista è ancora oggetto di ricerche. Il calcolo del numero delle vittime dipende anche dal periodo preso in esame e dal modo in cui si definisce “l’olocausto”, o la “deportazione”, o la “repressione”; si tratta comunque di un vero e proprio assassinio di massa che porta il totale dei morti addirittura a superare i 17 milioni.
Di fronte a questi dati e a questi eventi è giusto ricordare e trasmettere alle nuove generazioni questi moniti nella speranza della non ripetizione di ogni tipo di “olocausto”.
La filosofa Arendt ha sollevato un problema interpretativo fondamentale del fenomeno dell’olocausto: la normalità burocratica e l'incapacità di pensare nel personale e nei “gerarchi” nazisti; vi era una massa compatta di uomini perfettamente "normali" i cui atti erano però "mostruosi". Dietro questa "terribile normalità" della massa burocratica, che era capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della "banalità del male". Per la Arendt  lo stesso Eichmann ha sempre agito all'interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini: una cieca obbedienza, che non riflette sul contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente (irriflessività).
Recenti studi italiani hanno evidenziato un aspetto particolare dell’Olocausto: la delazione operata da italiani che denunciarono altri italiani (ebrei, politici, partigiani, ecc.) e che, fino al 25 aprile del 1945, diedero il proprio contributo allo sterminio nazista. Questi "collaboratori" non erano solo gli esponenti del Regime fascista e repubblichino, ma anche privati cittadini, erano singoli o gruppi o bande che facevano le “soffiate” dietro compenso dei tedeschi, o per avere vantaggi economici o vendette personali, o regolamenti di conti, o possibilità di accaparrare beni.
Ci fu, dunque, anche una molla economica nella complicità italiana allo sterminio. Le leggi razziali italiane del 1938 ridussero le attività economiche di molti ebrei (professionisti, docenti, ecc.); dal ’43 si passò al sequestro dei beni; poi alla ricompensa per la delazione.
In ogni genocidio non manca mai la dimensione particolarmente meschina della ricerca del guadagno “personale” (rappresentato dall’accaparrare  beni, premi e taglie).
Non tutti ebbero le stesse responsabilità e la stessa consapevolezza, ma di fatto hanno partecipato a un progetto persecutorio e senza il loro contributo quel progetto non sarebbe stato possibile nel suo concreto svolgersi. Insomma, la “normalità burocratica” e l'incapacità di pensare sono concetti da applicare non soltanto alla Germania, ma anche all’Italia.
Oltre 8.000 ebrei italiani furono deportati fra il 1943 e il 1945. Circa la metà furono arrestati da italiani, per poi essere consegnati ai tedeschi. La maggior parte di loro non uscì viva dai lager nazisti. Solo in seicento tornarono in Italia.
Gli italiani deportati nei campi di concentramento e di sterminio furono circa 40.000 (circa 29.000 erano politici e circa 8.000 ebrei), dei quali ritornarono in Italia alla fine del conflitto e dopo la terribile esperienza dei lager soltanto circa 4.000 persone; 36.000 circa morirono invece di stenti, sevizie o nelle camere a gas dei lager nazisti.
A questi vanno aggiunti i 650.000 militari italiani internati e costretti al lavoro coatto, dei quali 40.000 perirono nei campi di lavoro o nei lager.
Numeri impressionanti che impongono riflessioni: come è stato possibile che Hitler e i suoi gerarchi abbiano “coinvolto” non solo le masse tedesche, ma anche quelle di altri Paesi compresi molti italiani?
La riflessione della Arendt è utile per comprendere come la “normalità burocratica” e l'incapacità di pensare siano elementi che favoriscono il coinvolgimento di molte persone nel contribuire alla edificazione di un regime criminale.
Che cos’è dunque la banalità del male? È l’incapacità di farsi domande su quello che si sta facendo. Quando obbedisci, non ti fai domande su ciò che fai ma solo su come lo fai, cerchi di essere efficace nell’esecuzione; ma poi c’è la responsabilità: l’obbedienza mette ciascuno di fronte ad una strada, e a ogni bivio si deve decidere; c’è quindi la responsabilità di ciascuno in ogni azione compiuta: «Non siamo fuori dalla storia, il problema è: come ci stai dentro».
Conseguentemente per la Arendt una maniera per prevenire il male risiede nel processo del pensare, caratterizzato essenzialmente nella perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento. La capacità di pensare ha, dunque, la potenzialità di mettere l'uomo di fronte ad un quadro bianco senza bene o male, senza giusto o sbagliato, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli di deliberare un giudizio circa gli eventi che ha di fronte. Risulta fondamentale esercitare la capacità di riflettere, basata sul dialogo con se stessi circa il significato degli avvenimenti; in altre parole, la manifestazione del pensiero è capace di provocare perplessità e obbliga l'uomo a riflettere e a pronunziare un giudizio: Il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, (…). Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida (…) il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità"... solo il bene ha profondità e può essere integrale.
Lo stesso concetto si può ritrovare in queste parole di Primo Levi: “Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo (…) considerate se questa è una donna (…) meditate che questo è stato (…) scolpitele nel vostro cuore (…)”
.
Pensare, considerare, meditare e scolpire nel cuore e nei cervelli è la prima fase, ma poi bisogna agire, cioè prendere un’iniziativa, incominciare, condurre e governare, mettere in movimento qualcosa. L’azione, dunque, acquista rilievo nel corso della vita umana, per la sua capacità di dare a quest’ultima un significato profondo, che le permetta di superare la banalità del male, ricordandoci che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare”.
Ma bisogna agire subito, dopo i primi segnali o di fronte ai primi passi dei regimi totalitari, soprattutto bisogna vincere i pericoli dell'apatia e della paura, pericoli ben sintetizzate dalla poesia “Prima vennero per …”, ricordando che se non si agisce quando “tocca” agli altri, prima o poi si rischia di “essere presi” e che  nessun altro possa poi più “dire qualcosa” ...
Euro Mazzi


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