Il
27 gennaio (Giorno della Memoria) è occasione di cerimonie in ricordo della
deportazione di milioni di persone (ebrei e non solo) e del loro sterminio. Il
numero esatto di persone sterminate dal regime nazista è ancora oggetto di ricerche.
Il calcolo del numero delle vittime dipende anche dal periodo preso in esame e
dal modo in cui si definisce “l’olocausto”, o la “deportazione”, o la “repressione”;
si tratta comunque di un vero e proprio assassinio
di massa che porta il totale dei morti addirittura a superare i 17 milioni.
Di
fronte a questi dati e a questi eventi è giusto ricordare e trasmettere alle nuove
generazioni questi moniti nella speranza
della non ripetizione di ogni tipo di “olocausto”.
La
filosofa Arendt ha sollevato un problema interpretativo fondamentale del
fenomeno dell’olocausto: la normalità burocratica e l'incapacità di pensare nel
personale e nei “gerarchi” nazisti; vi era una massa compatta di uomini
perfettamente "normali" i cui atti erano però "mostruosi". Dietro
questa "terribile normalità" della massa burocratica, che era capace
di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt
rintraccia la questione della "banalità del male". Per la Arendt lo stesso Eichmann ha sempre agito
all'interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini: una cieca
obbedienza, che non riflette sul contenuto delle regole ma le applica
incondizionatamente (irriflessività).
Recenti studi
italiani hanno evidenziato un aspetto particolare dell’Olocausto: la delazione operata da italiani che
denunciarono altri italiani (ebrei, politici, partigiani, ecc.) e che, fino al
25 aprile del 1945, diedero il proprio contributo allo sterminio nazista.
Questi "collaboratori" non erano solo gli esponenti del Regime fascista e
repubblichino, ma anche privati cittadini, erano singoli o gruppi o bande che facevano le “soffiate” dietro compenso
dei tedeschi, o per avere vantaggi economici o vendette personali, o regolamenti
di conti, o possibilità di accaparrare beni.
Ci fu, dunque, anche
una molla economica nella complicità italiana allo sterminio. Le leggi razziali
italiane del 1938 ridussero le attività economiche di molti ebrei (professionisti,
docenti, ecc.); dal ’43 si passò al sequestro dei beni; poi alla ricompensa per
la delazione.
In
ogni genocidio non manca mai la dimensione particolarmente meschina della
ricerca del guadagno “personale” (rappresentato
dall’accaparrare beni, premi e taglie).
Non tutti ebbero
le stesse responsabilità e la stessa consapevolezza, ma di fatto hanno
partecipato a un progetto persecutorio e senza il loro contributo quel progetto
non sarebbe stato possibile nel suo concreto svolgersi. Insomma, la “normalità
burocratica” e l'incapacità di pensare sono concetti da applicare non soltanto
alla Germania, ma anche all’Italia.
Oltre 8.000 ebrei italiani furono deportati
fra il 1943 e il 1945. Circa la metà furono arrestati da italiani, per poi
essere consegnati ai tedeschi. La maggior parte di loro non uscì viva dai lager
nazisti. Solo in seicento tornarono in Italia.
Gli italiani
deportati nei campi di concentramento e di sterminio furono circa 40.000 (circa 29.000
erano politici e circa 8.000 ebrei), dei quali ritornarono in Italia alla fine
del conflitto e dopo la terribile esperienza dei lager soltanto circa 4.000
persone; 36.000 circa morirono invece di stenti, sevizie o nelle camere a gas
dei lager nazisti.
A
questi vanno aggiunti i 650.000 militari
italiani internati e costretti al lavoro coatto, dei quali 40.000 perirono nei campi di lavoro o
nei lager.
Numeri
impressionanti che impongono riflessioni: come è stato possibile che Hitler e i
suoi gerarchi abbiano “coinvolto” non solo le masse tedesche, ma anche quelle
di altri Paesi compresi molti italiani?
La
riflessione della Arendt è utile per comprendere come la “normalità burocratica”
e l'incapacità di pensare siano elementi che favoriscono il coinvolgimento di
molte persone nel contribuire alla edificazione di un regime criminale.
Che cos’è dunque la banalità del
male? È l’incapacità di farsi domande su quello che si sta facendo. Quando obbedisci,
non ti fai domande su ciò che fai ma solo su come lo fai, cerchi di essere efficace
nell’esecuzione; ma poi c’è la responsabilità: l’obbedienza mette ciascuno di fronte ad una strada, e a ogni bivio si
deve decidere; c’è quindi la responsabilità di ciascuno in ogni azione
compiuta: «Non siamo fuori dalla storia,
il problema è: come ci stai dentro».
Conseguentemente
per la Arendt una maniera per prevenire il male risiede nel processo del
pensare, caratterizzato essenzialmente nella perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro
regole di comportamento. La capacità di pensare ha, dunque, la potenzialità di
mettere l'uomo di fronte ad un quadro bianco senza bene o male, senza giusto o
sbagliato, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli di
deliberare un giudizio circa gli eventi che ha di fronte. Risulta
fondamentale esercitare la capacità di riflettere,
basata sul dialogo con se stessi
circa il significato degli avvenimenti; in altre parole, la manifestazione del
pensiero è capace di provocare perplessità e obbliga l'uomo a riflettere e a
pronunziare un giudizio: “Il male non è mai 'radicale', ma
soltanto estremo, (…). Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché
cresce in superficie come un fungo. Esso sfida (…) il pensiero, perché il
pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in
cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità"... solo il bene ha profondità e
può essere integrale”.
Lo
stesso concetto si può ritrovare in queste parole di Primo Levi: “Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo (…) considerate se questa è una donna (…) meditate che questo è stato (…) scolpitele nel vostro cuore (…)”.
nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo (…) considerate se questa è una donna (…) meditate che questo è stato (…) scolpitele nel vostro cuore (…)”.
Pensare,
considerare, meditare e scolpire nel cuore e nei cervelli è la prima fase, ma
poi bisogna agire, cioè prendere un’iniziativa, incominciare, condurre e governare,
mettere in movimento qualcosa. L’azione, dunque, acquista rilievo nel corso
della vita umana, per la sua capacità di dare a quest’ultima un significato
profondo, che le permetta di superare la banalità del male, ricordandoci “che gli
uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare”.
Ma
bisogna agire subito, dopo i primi
segnali o di fronte ai primi passi dei regimi totalitari, soprattutto
bisogna vincere i pericoli dell'apatia e
della paura, pericoli ben sintetizzate dalla poesia “Prima vennero per …”, ricordando che se non si agisce quando “tocca”
agli altri, prima o poi si rischia di “essere
presi” e che nessun altro possa poi più
“dire qualcosa” ...
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